Una strana e inquietante firma
Cosa fare mentre si aspetta una visita nei corridoi dell’ospedale? C’è chi legge, chi parla, chi domanda, chi guarda il cellulare, ma se non c’è campo e non funziona bene, si aspetta e basta, come stavo facendo io. Succede però che lo sguardo cada su una rivista posta su un tavolino, e così vengo a sapere che esiste una pubblicazione a scopi benefici, che arriva lì con un titolo incoraggiante: Compassion Magazine. In copertina, il volto sorridente di un bambino africano. Sfogliandola, si coglie l’intento di liberare dalla sofferenza tanti bambini, esplicitamente in nome di Gesù.
Scoperta di per sé interessante, ma poi mi accorgo di una frase scritta con una biro, da una mano ignota. Qualcuno, sotto il titolo di quel magnifico richiamo umanitario, ovvero la compassione, ha aggiunto la propria, non richiesta, opinione: “Neanche un poco…”. Era già chiaro l’intento e il pensiero dell’invisibile autore, che però aggiunge una strana e inquietante firma, se così si può dire: disegna con la biro una svastica nazista.
Non si tratta forse altro che di un utente insoddisfatto delle cure o dei ritardi, arrabbiato di suo? Può darsi, certo. Ma questo gesto rivela il moto oscuro di un animo che sfoga il proprio malanimo nel rifiuto di quel bambino, che invece era evidentemente stato accolto da amici di quel giornale o da qualche comunità ad esso collegata.
Mi fermo un attimo a pensare. L’episodio è minimale, certo, non fornisce spiegazioni di alcun genere, ma ci rimanda qualche segnale di tendenze sociali ormai contrapposte. La prima è peraltro consolante: ci sono comunità, libri, giornali, cittadini che si fanno carico di dare benessere a chi non ha mai saputo cosa fosse nella sua vita. La seconda è comunque preoccupante, anzi, è drammatica, perché ci mostra che, a furia di divulgare ostilità e odio verso i nuovi arrivati o verso chi raggiungiamo grazie a progetti generosi e coraggiosi in favore di popoli poverissimi, si allarga ancora di più la divaricazione tra noi e loro: un noi da claustrofobici impauriti e un loro da potenziali nemici da cui difendersi. Altro che usare compassione!
E infine, ferisce non poco la firma a nome del simbolo nazista, che si colloca al vertice di un male mai così concepito e mai così scientificamente praticato.
Alla fine, pensando ai due protagonisti – l’uno, il bambino, che la compassione l’aveva ricevuta e ne era grato con il suo sorriso, e l’altro, che forse viveva senza averla ricevuta e comunque era prigioniero delle sue paure – si deve perciò concludere che l’assenza di umanità sia davvero la sfortuna più grande nella vita.