Un inedito Amleto inaugura la stagione del Teatro Sloveno di Trieste
Trieste – La nuova stagione del Teatro Stabile Sloveno di Trieste si è aperta con «Amleto» di Shakespeare.
La versione della storica traduzione slovena di Ivan Cankar è stata diretta da Matjaž Farič, seguendo l’adattamento della drammaturga Staša Prah, che ha inteso eliminare tutte le vicende di contesto per andare a inquadrare, come farebbe una macchina cinematografica, i primi piani del protagonista e delle sue complicate relazioni con i propri genitori.
La vicenda ha inizio con un emozionante morboso abbraccio che si trasforma in una vera e propria lotta fisica tra un figlio sofferente per la perdita del padre e il cadavere di quest’ultimo, abbandonato nudo e solo sul catafalco funebre.
Un’intuizione interessante che sembra voler suggerire di un complesso edipico mai risolto e, al contempo, osservare con fredda distanza la rabbia per quel senso di abbandono che attanaglia il cuore di un figlio, costretto suo malgrado ad accettare la perdita del genitore.
I doveri sociali del lutto non acquietano il tormentato cordoglio mai risolto nell’anima di Amleto che in preda alla visione onirica dello spettro del padre intenta il noto piano della sua fredda vendetta.
Qui però il ritmo drammatico va in stallo e non emergono altri spunti di riflessione per lo spettatore che pur è accompagnato con violenza nella visione «dark» della messa in scena piuttosto minimal dalle sonorità prepotenti del leggendario gruppo «industriale» sloveno Laibach.
L’apertura di uno spazio scenico piuttosto ampio e una certa insistenza didascalica dei movimenti di scena dei personaggi non corrobora l’intensità pretesa alla partenza, lasciando un poco delusi.
Il giovane protagonista Klemen Janežič, del Teatro nazionale di Ljubljana, non riesce a penetrare abbastanza nel dramma psicologico che l’idea registica sembra voler sottolineare con forza per il principe di Danimarca e si lascia a volte abbandonare con troppa disinvoltura a toni ammiccanti nei confronti del pubblico, più conformi alla telecamera televisiva che al contesto della tragedia in scena, anche se fisicamente permette alla regia di esprimere al massimo le proprie capacità espressive e non si risparmia.
L’Ofelia di Sara Gorše non contagia il pubblico con l’esaltazione della sua pazzia, anche se l’elettrica isteria che pervade il personaggio è convincente.
Troppo poco spessore è dato invece agli altri personaggi lasciati appiattire nell’apparato di dialoghi marcati debolmente da gestualità stereotipate malgrado i tentativi degli interpeti: Jan Bučar, lo zio usurpatore; Primož Forte, Polonio; la regina Gertrude, Tina Gunzek e Jernej Čampelj, Laerte. Il muto fantasma del re, interpretato da Vladimir Jurc è un altro elemento di regia che trascura la simbolica iniziale dalla quale tutto sembra prendere vita e diventa una semplice realizzazione coreografica del copione originale, forse anche non proprio del tutto riuscita.
Ciò che la premessa lasciava sperare all’inizio dello spettacolo, sembra finalmente poter riprendere vigore al principio del secondo atto, con la convulsa, viscerale interpretazione della pantomima da parte di Amleto.
A rovinarne l’effetto è l’applauso del pubblico, certo meritato dal bravo Janežič, ma che ha decretato la fine drammaturgica dei pochi minuti di forte emozione, così come più volte è capitato a causa dell’espediente della luce diffusa che immerge a giorno la platea e che avrebbe forse dovuto far comprendere al pubblico come il dramma inscenato sia qualcosa di pertinente alla vita di ciascuno o che forse voleva essere un vago riferimento allo «straniamento» di brechtiana memoria, ma che certo ha smorzato quel clima dark che consideravamo intelligentemente ispirato.
Uno spettacolo che senz’altro fa discutere, come deve essere ogni opera artistica e culturale, che forse divide nelle opinioni, per molti coinvolge, che il pubblico della prima ha apprezzato con prolungati applausi e che deve essere vista, perché il teatro è discussione, il teatro è vita. Lo spettacolo, come sempre sopratitolato in lingua italiana, replica fino al 6 ottobre.
Marzio Serbo