Scuola. Aperta o chiusa? L’importante è la protesta

Qualche tempo fa, quando le scuole erano aperte, una giovane studentessa si asteneva dalle lezioni per protestare contro le politiche climatiche dando vita a un movimento globale. Ora, mentre le scuole sono chiuse, giovani studenti protestano perché non possono andare a scuola dando vita a molte manifestazioni locali.

Dietro l’apparente contraddizione, una cosa è certa: la scuola, che sia aperta, chiusa, in presenza, a distanza o in assenza, rimane il terreno comune della protesta e della lotta politica. Non solo: con la didattica a distanza, la scuola è diventata il campo in cui si scontrano e si intersecano istanze e polemiche didattiche, psicopedagogiche, lavorative, educative, sanitarie, comunicative, costituzionali, strutturali, infrastrutturali, “cromatiche” e legali.

In questi giorni, nelle aule del parlamento, la scuola è stata usata più volte come una bandiera di impegno sociale per il futuro (!) o un randello con cui colpire gli avversari e le loro presunte deficienze organizzative. In ogni caso, la crisi di questo periodo mostra chiaramente come il sistema cui eravamo abituati è tragicamente insufficiente a fronteggiare un’emergenza epidemica e a garantire un livello accettabile di vita comunitaria. Tutto ciò nonostante da decenni, e con governi di colori diversi, si protesti contro l’insufficienza dei finanziamenti al sistema scolastico (e sanitario) e contro soluzioni didattiche regressive, come il numero di studenti per classe: l’Italia resta uno dei pochi paesi industrializzati a calcolare il numero di studenti per classe in rapporto ai metri quadrati e non alle esigenze educative.

Non sembra accadere altrettanto per l’università, il cui ministro – contrariamente a quello dell’istruzione – tace e sembra non essere chiamato in causa. L’interazione universitaria a distanza non suscita le polemiche scatenate per gli studenti delle elementari e medie: al contrario, vi è chi sostiene che così i docenti universitari sono più vicini agli studenti.

Poiché l’università non prevede la frequentazione di studenti minorenni ed è legata a dinamiche diverse – come sostanziosi finanziamenti e distribuzioni di fondi -, le problematiche non sono così urgenti da coinvolgere la vigilanza delle famiglie, mobilitare la protesta dei genitori e ricorrere al Tar per ripristinare il diritto allo studio. Che poi non soltanto di studio si tratta, ma soprattutto di socialità, socializzazione, sorveglianza e apprendimento.

Infatti la medesima sofferenza è accusata dalle società sportive e da tutte quelle attività di gruppo che non possono più essere esercitate, il che inasprisce l’isolamento di ragazze e ragazzi provocando, in taluni, anche un malessere che incide sulla qualità della vita negando la possibilità (il diritto?) all’attività fisica e mentale in un momento importante per lo sviluppo individuale.

Importante, anzi: fondamentale a detta di tutti. Eppure non abbastanza da far elaborare una strategia comune e unanime a governo e regioni. Tra botte e risposte di Cts, Iss, Inail, Regioni, governo, ministeri e tribunali amministrativi, sorge il sospetto che il benessere di milioni di studentesse e studenti sia ostaggio della politica e dei suoi equilibri di potere. Come, di fronte alla questione dei vaccini, viene il dubbio che la salute di milioni di cittadini non sia una questione di vita o di morte, ma rappresenti semplicemente la voce principale del profitto delle case farmaceutiche.

In questi giorni di crisi di governo, a esempio, nell’indecisione se riaprire o meno le scuole, il presidente della regione Friuli Venezia Giulia sembra temere più le sentenze del Tar e i loro contraccolpi legali che i provvedimenti del primo ministro. Ha dichiarato, infatti, che in caso di una sentenza del Tar a favore della riapertura, non rinnoverebbe l’ordinanza di chiusura.

E se questo non bastasse, c’è da aggiungere la difformità sui rapporti pandemici pieni di “è verosimile”, “sembrerebbe”, “probabilmente”, “perlopiù” etc. etc. Persino gli esperti di data science, al momento di trarre le conclusioni, iniziano con un “forse”. In compenso molti istituti universitari stanno aprendo nuove linee di ricerca per il nuovo campo di indagine che è diventato la previsione sulla prossima ondata pandemica. Il tutto, naturalmente, con attenzione ad ottenere finanziamenti milionari. E senza che ci possa essere la certezza che riaprire le scuole sia sicuro per la salute fisica.

Di sicuro, invece, c’è la serie di scioperi e manifestazioni di studenti e genitori che chiedono maggiori investimenti da destinare alla formazioni cogliendo l’opportunità del recovery fund e riaccendendo le polemiche, tra le altre, su scuola pubblica e paritaria.

Nonostante i fondi destinati alla scuola dal Next Generation EU siano considerati ancora scarsi (si parla di un 5,15% del totale in sei anni), dopo anni di inerzia la pandemia potrebbe essere il pretesto per iniziare un movimento di riforma della scuola nei suoi aspetti più superati e inefficienti. Purché la conversione degli stati sia sostenibile, e la loro digitalizzazione non subordini i cittadini di domani ai veri protagonisti di questa rivoluzione, alle uniche entità che sono uscite da questa pandemia economicamente vittoriose e rafforzate e che sono gli avversari più pericolosi: le multinazionali che producono e vendono tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Le uniche capaci di controllare e influenzare profondamente i nostri gusti e le nostre tendenze. Sempre che ci sia ancora spazio per la libertà ed energie per esercitarla.

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