Nuova veste in 4k per Mulholland Drive di David Lynch
Fvg – Guardare un film di David Lynch è come leggere un fumetto di Moebius nel periodo del Garage Ermetico: si capisce ben poco ma si rimane estasiati dai disegni bellissimi dell’autore. Anche Lynch si propone come un regista particolarmente difficile da comprendere, ma nessuno resta indifferente alla cifra stilistica del maestro, alle inquadrature sempre particolari, alla musica – che di tanto in tanto scrive pure, e a quell’idea di spazio-colore che configura l’ambientazione come un dipinto. Lynch è prima di tutto un artista che si muove nel territorio della comunicazione in maniera sorniona, geniale, personale e affascinante. Il film che meglio rappresenta questa descrizione è Mulholland Drive del 2001, abile noir dal risvolto psicologico e dai colori preziosi e raffinati, che in questo periodo è stato riproposto nelle sale completamente restaurato ad opera di StudioCanal su richiesta della Cineteca di Bologna, con una veste in 4K che aumenta l’effetto quadro fiammingo della pellicola.
La narrazione criptica pretende una partecipazione dello spettatore, stimolato ad entrare nel labirinto della codifica che è al contempo una torre di Babele e uno zuccherino. La sigla ad esempio, con un abile gioco di post-produzione, introduce in un ambiente da scanzonata balera con uno sfrenato jitterbug , composto da Angelo Badalamenti , ma il ritmo delle percussioni lascia presagire molto di più di quello che mostra. Il tema del film è Hollywood e le sue contraddizioni, le speranze perdute, la frustrazione e la rabbia di chi non riesce a entrare nel cono di luce, le umane miserie e la depressione, che definiscono lo sgretolare delle personalità presunte tali da un provincia gonfia di orgoglio campanilistico. Non poche sono le citazioni cinematografiche, prima fra tutte proprio quella Rita Hayworth di Gilda, che presta il nome posticcio alla sperduta, smemorata e bellissima coprotagonista.
Lo spettatore viene spiazzato continuamente e si ritrova a dover ricalcolare la direzione dopo aver creduto di essere stato preso per mano e accompagnato dal regista nello svolgersi della vicenda. L’aspetto psicologico e il continuo deragliamento della comprensione, fa paragonare questo film al capolavoro di A. Hitchcock “Vertigo – La donna che visse due volte” del 1958, ma mentre il maestro del brivido si concede una lunga spiegazione di ciò che lo spettatore ha intuito per buona parte della vicenda, Lynch al contrario “non rilascia alcuna intervista”, ti abbandona al tuo solitario e difficile cammino. L’incomprensione diventa allora una voglia di rivedere ancora la pellicola e di trovare nella rete una spiegazione plausibile, che esiste ma che, come fa in genere la grande arte, pretende dallo spettatore una sorta di impegno celebrale. Partire da questa pellicola per chi non ha mai guardato un film di David Lynch è un bel rush psichedelico.
Raimondo Pasin