Didattica a distanza e solitudine dell’insegnante. Come si indebolisce la classe dei lavoratori
La didattica a distanza, non sempre lo si percepisce, è una contraddizione in termini: non ci può essere relazione pedagogica, nella maniera in cui si intende da venticinque secoli, senza una continuità e una contiguità basate sullo scambio immediato (e non mediato) di nozioni ed emozioni e che investa concentrazione e atteggiamento etico. Insomma: come la intendeva Socrate.
Perciò il mondo della scuola è su un letto di Procruste: la didattica in presenza è utile ma pericolosa per la salute. La didattica a distanza preserva dal virus ma è un fallimento totale, tranne per un fatto: che la scuola trova una conciliazione burocratica e la politica una giustificazione propagandistica. Due buoni motivi per giustificare l’esistenza di entrambe.
Alcuni obiettano che siamo a un punto di svolta e che la didattica tradizionale è alla fine, proiettata verso il futuro della digitalizzazione e dell’intelligenza artificiale. Ma siamo ancora lontani. L’IA, per ora, è capace di prendere cantonate solenni: l’ultima è quella della telecamera puntata su un campo di calcio e che, invece di inquadrare il pallone, seguiva la testa pelata del guardalinee, più lucida e rotonda del pallone a giudizio dell’algoritmo. L’IA non ha possiede ancora l’opportuno discernimento critico. E i tifosi dell’Inverness Caledonian Thistle FC, costretti anche loro alla distanza causa il Covid-19, erano furibondi per aver perso le fasi salienti della partita.
Nella distanza c’è qualcosa che non funziona: nel calcio come nella scuola la digitalizzazione spesso fa cilecca. Con la differenza che a scuola giocano altri fattori fondamentali. Per esempio la mascherina. E, a proposito, è impossibile non aver notato che, di fronte alla pandemia, i rimedi estremi ai mali estremi sono ricchi di implicazioni oltre al fatto che la scuola, come il calcio, ha bisogno di disciplinare i suoi frequentatori. Ma la scuola, più del calcio, segna quella linea oltre la quale non è ancora certo che si possa tornare indietro.
Infatti qualche tempo fa, il premier Conte si è trovato nella necessità di raccomandare agli adolescenti di indossare la mascherina (qui la notizia e il nostro commento), ovvero di convincere una fascia d’età – per sua natura riottosa all’autocontrollo e all’autodisciplina – a osservare rigorosamente una norma. Ma non lo ha fatto ricorrendo alla chiesa o raccomandandosi alla famiglia. Non lo ha fatto nemmeno appellandosi – come sempre accade in materia di giovani – alla cittadinanza responsabile, all’educazione civica o al concetto di responsabilità individuale e collettiva: insomma, a tutti quegli insegnamenti praticati in quel luogo che deve rimanere aperto se non si vuole evitare il regresso civile e culturale: la scuola.
Il nostro premier non ha coinvolto, come al solito, docenti e insegnanti di ogni ordine e grado. Questa volta non si è data la colpa alla scuola che non educa abbastanza. Conte ha fatto di meglio. È andato oltre: per convincere le e gli adolescenti a portare la mascherina ha telefonato all’influencer. Anzi: a una coppia di influencer, di quelli con la i maiuscola.
Se lo dice Fedez, lo faranno anche loro – deve aver pensato. Se lo raccomanda Ferragni, indosseranno la mascherina senza obiezioni. Anche mentre chiacchierano attorno a un aperitivo, anche mentre animano la movida. Proviamole tutte, avrà pensato l’onorevole Conte, chissà che non attacchi… Chissà che non funzioni dove hanno fallito l’educazione (anche civica), i corsi di cittadinanza consapevole, le raccomandazioni alla responsabilità e al rispetto individuale e collettivo. Perché la scuola, il luogo dove si insegnano le regole, è chiusa. E finché è stata aperta, non ce l’ha fatta a costruire quel senso civico di reciproca attenzione e rispetto. Le cifre da bollettino di guerra parlano chiaro.
E allora cosa si fa? Si ricorre all’influencer. Si pensa che la popolazione degli adolescenti sia più influenzabile che educabile. Si rinuncia alla formazione profonda delle coscienze per ricorrere al principio superficiale dell’ imitazione. Si rinuncia a insistere sulla consapevolezza del bene reciproco per ricorrere alla moda conformista dei social. Si chiudono le scuole e si accendono gli smartphone. E tutto, ovviamente, in nome dell’emergenza e del principio di necessità. Nel nome di quel mantra che fa volare l’occhio dei droni sulle nostre teste e ci rinchiude a studiare e lavorare a casa.
Studenti e lavoratori della conoscenza ridotti ad appendici di terminali, ognuna delle due categorie in astinenza da rapporto sociale e umano. Degli studenti si è sottolineato più volte quanto siano penalizzati dalla mancanza del contatto con i loro pari (tanto che per comunicare con loro si ricorre agli influencer). Ma degli insegnanti non si è ancora detto tutto.
Il lavoro da casa è analizzato dal punto di vista sindacale in lungo e in largo. Non serve ricordare che già si parla di Far West contrattuale. Non ci sono regole per una situazione inedita e, se ci sono, sono penalizzanti. Complice il fatto che gli insegnanti – come tutti i lavoratori a distanza – devono anch’essi rinunciare al contatto quotidiano con i colleghi, al rapporto sia umano che professionale, a quello scambio personale – anche rapido ma efficace perché costante – che serve a comunicare e condividere elementi di vita lavorativa e sociale che completano un’attività intellettuale a vantaggio degli studenti e anche, perché negarlo, a vantaggio della propria informazione o semplicemente della propria serenità.
Ma soprattutto viene a mancare quell’opportunità di coordinarsi, di scambiarsi informazioni contrattuali, di aggiornarsi e confrontarsi sulle politiche lavorative o di istituto, di elaborare forme di protesta corale. Anche il mondo dei lavoratori è disgregato e altrettanto rischiano i loro diritti.
Non solo disuniti per forza, ma anche controllati personalmente dalle piattaforme delle multinazionali, onnipervasive, dalla memoria eccezionale, che tutto vedono, tutto ricordano nei server e tutto mettono a disposizione dell’occhio dei dirigenti che non ha più confini naturali.
Come nelle grandi metafore di disfacimento – che sia il Covid-19 o la peste di Atene – alla fine quanto si teme è che nulla sarà come prima e tutto cambierà. Rimane da vedere se in meglio o in peggio. A esempio, nel generale rivolgimento pedagogico e didattico di forme e contenuti, un punto resiste inamovibile: i testi Invalsi…
Roberto Calogiuri