Competenze. A scuola come nell’esercito. Lo vuole il futuro o le multinazionali?

Trieste – Adesso che la pressione del gran caldo sembra diminuita, e le disquisizioni tra temperatura reale e percepita sono diventate per ora  inutili, ci si può dedicare a un’altra nozione importante che è quella di competenza, vale a dire di quel concetto la cui applicazione sta portando alla rivoluzione del sistema didattico italiano.

E per chi non avesse ancora dimestichezza con questa nozione, si potrebbe iniziare – per chiarire le idee – sottolineando che i concetti di temperatura percepita e competenza nascono entrambi in ambiente militare.

La temperatura percepita (elaborata grazie al solito algoritmo) serviva a mettere in allerta i soldati di stanza in Viet-Nam contro i possibili malori provocati dal tasso di umidità. La competenza (introdotta durante la seconda guerra mondiale) era – ed è – il modo di misurare il rendimento di un soldato della seconda mondiale in base agli obiettivi raggiunti.

All’inizio tutto si riduceva semplicemente al numero di bersagli colpiti in relazione a quelli proposti. Misurazione piuttosto semplice.

Poi, grazie agli psicologi e sociologi USA, le cose si sono raffinate fino a diventare il modo principale che le aziende hanno di misurare gli strumenti e le capacità che il lavoratore possiede per progredire nel merito e nella carriera. Lo hanno chiamato Thematic Apperception Test e le cose hanno cominciato a complicarsi.

Poi le competenze sono arrivate nelle scuole italiane attraverso le politiche europee e su pressione dei gruppi industriali – tra il 1989 e il 2001 -, con lo scopo di creare un bagaglio omogeneo di “saperi” individuali, facilmente impiegabile e che superasse i confini e le specialità nazionali e, soprattutto, creasse mano d’opera fluida e mobile, consumatori obbedienti e acritici e culturalmente omologati.

A questo scopo servono i test Invalsi con le loro domande fortemente strutturate e orientate a gettare le basi di competenze analoghe sul territorio nazionale e, poi, su quello europeo e poi su quello mondiale grazie ai test OCSE-Pisa (per capirci: quelli che dicono che l’Italia, in matematica, è al 32° posto nel mondo).

Ora, nelle scuole si sta avviando la didattica per competenze, scardinando quella tradizionale per discipline e proponendo il tutto come una grande e feconda rivoluzione innovativa che incontri finalmente il futuro e che produca lo svecchiamento di antiquati modelli di scuola.

Le coordinate, ed evidentemente anche gli obiettivi, sono le medesime che il Miur ha intenzione di applicare alla istituzione del “liceo breve” (articolato in quattro e non più in cinque anni) con lo scopo di creare un’azione combinata con le competenze.

La definizione di competenza che si trova dalla parte dei suoi sostenitori è molto accattivante: “La scuola deve quindi fare in modo che le giovani generazioni sviluppino competenze, intese come “combinazione di conoscenze, abilità e atteggiamenti appropriati al contesto”. La competenza è una dimensione della persona che, di fronte a situazioni e problemi, mette in gioco ciò che sa e ciò che sa fare, ciò che lo appassiona e ciò che vuole realizzare.” Così si legge nel sito della Pearson.

Oltre al fatto che il concetto di competenza è molto articolato e impossibile da trattare in breve, rimane che l’unico strumento diretto e costrittivo che il Miur possiede per mettere in atto questa strategia sono i test Invalsi. E i test Invalsi sono prove standardizzate, stese come una coperta sul territorio nazionale, che obbligano docenti e alunni a una trasmissione e un’acquisizione standardizzate del sapere. A meno che, com’è noto, non siano boicottati.

La critica più evidente al sistema delle competenze è dunque l’imposizione – con la complicità di Invalsi – di un sistema di acquisizioni e dati acquisibili che mette da parte non solo la libertà di insegnamento garantita dalla Costituzione ma anche le differenze individuali, territoriali, sociali e culturali appiattendo e uniformando le peculiarità.

I teorici delle competenze la chiamano, invece, “democratizzazione della formazione”.

Che questo movimento sia inarrestabile è provato non solo dalle politiche europee che sposano quelle industriali e speculatrici, ma è reso più evidentemente dal fatto che i grandi gruppi editoriali hanno fiutato l’affare e già si muovono alla conquista della scuola, considerata – volenti o nolenti – un mercato e, quindi, sottoposta alle sue leggi.

I grandi gruppi editoriali, che per tradizione si occupano di scuola, già propongono schemi e pacchetti prefabbricati per insegnare-programmare-valutare per competenze, organizzano corsi di valutazione per competenze o di certificazione delle competenze, reclutano i loro referenti di dattica per competenze nelle scuole. (È interessante dare un’occhiata ai loro siti).

Il sospetto che tutto graviti attorno a logiche politiche di mercato è introdotto dal fatto che la citazione sulle competenze proposta sopra è tratta dal sito della Pearson, la  multinazionale che ha 35.000 dipendenti, sedi in 70 paesi e 5 continenti. In Italia ha acquisito Paravia e Bruno Mondadori.

All’estero Pearson non gode di una gran buona fama: le critiche che le vengono mosse sono le solite dei gruppi multinazionali: un’azienda commerciale che ha troppa influenza sull’educazione pubblica, evasione fiscale off-shore, licenziamento di insegnanti per compensare i costi dei test (in Italia non ci hanno ancora pensato), clamoroso compenso di un milione e mezzo di sterline a un direttore esecutivo dopo una clamorosa perdita, la proprietà dell’unico istituto privato nel Regno Unito di istruzione e certificazione (Edexcell, con sede a Malta), di aver ceduto il 3,27% delle sue azioni al figlio di Gheddafi in cambio di 280 milioni di sterline.

Eppure nella legge 107, detta la “Buona scuola”, la parola “competenza” compare da bell’inizio assieme al proposito di “contrastare le diseguaglianze socio-culturali e territoriali” e poi si ripresenta per una cinquantina di volte.

Sembra tanto che le competenze, come la temperatura percepita, siano un’invenzione per tranquillizzare chi teme per il futuro e vuol far credere di aver trovato la soluzione di tutti i mali, delle diseguaglianze e delle ingiustizie create dall’economia. Ma di democratico sembra esserci molto poco.

Roberto Calogiuri

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