Annunciati i cinque finalisti del Premio Terzani dell’associazione culturale vicino/lontano
Udine – Velibor Čolić per Manuale d’esilio (Bompiani), Yu Hua per Il settimo giorno (Feltrinelli), Hisham Matar per Il ritorno (Einaudi), Domenico Quirico per Succede ad Aleppo (Laterza) e Frank Westerman per I soldati delle parole (Iperborea) sono i cinque finalisti della quattordicesima edizione del Premio letterario internazionale Tiziano Terzani, riconoscimento istituito e promosso dall’associazione culturale vicino/lontano di Udine insieme alla famiglia Terzani.
La giuria, riunitasi a Firenze a casa Terzani, ha selezionato i libri che andranno in votazione a partire da un elenco di quaranta titoli: «Anche quest’anno – commenta Angela Terzani, presidente della giuria – abbiamo cercato di candidare al premio opere che aiutino a far luce sui retroscena umani, storici o politici delle questioni di maggiore attualità nel mondo.
Questo, per restare fedeli allo spirito di Tiziano – alla cui memoria il premio è dedicato – che ha sempre voluto tentare di capire, e far capire, ciò che avveniva di là dai nostri orizzonti». I giurati – Giulio Anselmi, Enza Campino, Toni Capuozzo, Marco Del Corona, Andrea Filippi, Àlen Loreti, Milena Gabanelli, Nicola Gasbarro, Ettore Mo, Carla Nicolini, Paolo Pecile, Valerio Pellizzari, Peter Popham, Marino Sinibaldi – si sono ora riservati un supplemento di riflessione prima di passare alla votazione finale.
Il vincitore sarà annunciato in aprile e sabato 12 maggio, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine (ore 21), sarà il protagonista della serata-evento per la consegna del premio, da sempre appuntamento centrale del festival vicino/lontano, in programma a Udine dal 10 al 13 maggio. A fare da filo conduttore agli appuntamenti della XIV edizione della rassegna sarà la parola-chiave “squilibri”. Il tentativo è quello di analizzare le diseguaglianze e gli scompensi che caratterizzano in modo sempre più evidente le nostre società e in generale il nostro pianeta.
Info www.vicinolontano.it
Velibor Čolić è nato nel 1964 in Bosnia. Nel caos della guerra civile jugoslava, l’allora giovane cronista radiofonico, già scrittore di fama, è costretto ad arruolarsi nell’esercito croato-bosniaco. Diventa testimone della pulizia etnica, degli omicidi di massa e delle atrocità commesse nelle trincee e nei villaggi. Nel 1992 diserta, viene catturato, ma riesce a fuggire. Ripara in Francia come rifugiato politico. Sceglie di combattere l’estremismo e l’odio attraverso la letteratura e fa propria la lingua dell’esilio.
Arcangeli è il suo primo libro scritto in francese, pubblicato nel 2008. Seguono Gesù e Tito, Sarajevo Omnibus e la commedia nera Ederlezi. Nel 2016 firma Manuale d’esilio, edito in Francia da Gallimard e pubblicato nel 2017 in Italia da Bompiani: un intenso e ironico romanzo autobiografico sulle peripezie di un giovane ambizioso costretto a divenire un numero tra i rifugiati e a ricominciare tutto daccapo. Non è per niente facile vivere da esule, senza permesso di soggiorno, senza casa né soldi, senza riuscire a comunicare in una lingua che non ti appartiene.
Tra incontri nel sottobosco dei migranti, in mezzo a ubriaconi, piccoli delinquenti e approfittatori, vivendo improbabili storie d’amore, l’autore, sempre sorretto dalla passione e dalla fede nella letteratura, spiega come ripartire da zero. Nei 35 capitoli del libro, indicati come “lezioni” di un manuale, l’esilio diventa l’occasione per la ricerca della propria identità di uomo e di scrittore, sullo sfondo di un’Europa cieca e indifferente ai nuovi apolidi.
Yu Hua è nato nel 1960 a Hangzhou, in Cina. Figlio di un medico e di una infermiera, dopo gli studi in medicina diviene scrittore. È considerato uno dei più interessanti autori della nuova generazione ed è uno dei pochissimi noti all’estero. Più volte candidato al Nobel per la letteratura, in italiano ha pubblicato con Einaudi: Torture; L’eco della pioggia; il best seller Cronache di un venditore di sangue; Le cose del mondo sono fumo; con Hoepli: Racconti d’amore e di morte; con Feltrinelli: Brothers, Arricchirsi è glorioso, Vivere! – già edito da Donzelli e portato al cinema da Zhang Yimou –; la raccolta di saggi La Cina in dieci parole e, nel 2017, Il settimo giorno. È il racconto surreale dell’itinerario di un trapassato, in lista d’attesa per la propria cremazione, tra le storture della Cina contemporanea e, al contempo, un’ironica meditazione sul destino e sul senso della fine.
La vicenda si svolge durante i sette giorni che famiglia e amici hanno a disposizione per onorare il defunto con una tomba e garantirgli così il giusto riposo. Il protagonista, Yang Fei, un uomo vissuto troppo brevemente nella Cina del capitalismo socialista e delle sue aberranti contraddizioni, compie dunque un viaggio di sette giorni nell’Aldilà: come un fantasma si aggira tra le ombre dei morti, incontra persone care smarrite da tempo, imparando nuove cose su di loro e su se stesso.
Conoscenti e sconosciuti gli raccontano la propria esperienza nell’inferno vero, l’Aldiquà: storie di demolizioni forzate, corruzione, tangenti, feti gettati nel fiume come rifiuti, poveracci che vivono in bunker sotterranei come formiche, traffici di organi, consumismo sfrenato. Una Cina che forse è possibile raccontare solo dal punto di vista dell’Oltretomba.
Hisham Matar è nato a New York nel 1970 mentre suo padre lavorava per la delegazione libica alle Nazioni Unite. È vissuto a Tripoli e poi al Cairo prima di trasferirsi a Londra, dove si è laureato. Per Einaudi ha pubblicato: Nessuno al mondo (2006), tradotto in ventinove lingue e finalista al Man Booker Prize; Anatomia di una scomparsa (2011) e Il ritorno (2017), con cui ha vinto il premio Pulitzer 2017 nella categoria “Biography or Autobiography”. L’autore ha diciannove anni quando, nel 1990, suo padre Jaballa, fiero oppositore del regime di Muammar Gheddafi, viene sequestrato nel suo appartamento del Cairo, rinchiuso nella famigerata prigione libica di Abu Salim e fatto sparire per sempre.
Ventidue anni più tardi Hisham, che non ha mai smesso di cercarlo, può approfittare dello sprazzo di speranza aperto dalla rivoluzione del febbraio 2011 per fare finalmente ritorno nella terra “color ruggine, giallo e verde intenso” della sua infanzia felice. Il viaggio struggente verso un presente ormai sconosciuto non è che lo spunto per raccontare, con lucida essenzialità, un itinerario storico e affettivo ben più vasto. Visitando i luoghi e incontrando i parenti e gli amici che hanno condiviso con Jaballa decenni di prigionia nel “nobile palazzo” di Abu Salim, Hisham può recuperare un passato che risuona in lui come un’eco mai sopita e ritagliare i contorni di un padre che, in assenza di un corpo, risulta privo di confini.
Le tappe del viaggio privato s’intersecano con la storia libica del ventesimo secolo, dalla resistenza all’occupazione italiana al flirt di Gheddafi con l’Inghilterra di Tony Blair. All’antro più buio, all’orrore più raccapricciante, si accompagna talvolta la luce di un dipinto di Manet, la melodia di un alam: la consolazione dell’arte e della bellezza come salvifica espressione dell’uomo.
Domenico Quirico, giornalista e inviato, dalle pagine de la Stampa ha raccontato le vicende dell’Africa e del mondo arabo degli ultimi vent’anni. Ha attraversato il Mediterraneo su una barca di migranti, è stato sequestrato dai soldati di Gheddafi in Libia nel 2011 e dai jihadisti siriani nel 2013. Tra i suoi numerosi libri, i più recenti sono legati alla sua esperienza di giornalismo di presenza: con Neri Pozza ha pubblicato: Il paese del male. 152 giorni in ostaggio in Siria; Il Grande Califfato; Esodo. Storia del nuovo millennio (finalista del Premio Terzani, edizione 2017) e Ombre dal fondo (con P. Piacenza).
Con Laterza ha pubblicato nel 2017 Succede ad Aleppo. In queste pagine ripercorre anni della guerra civile con la forza di una testimonianza vissuta drammaticamente. Dalle prime manifestazioni contro il regime, sulla scia delle speranze della primavera araba, alle battaglie nelle vie dei vecchi quartieri ormai abbandonati. Dallo scontro tra Armata siriana libera, esercito di Bashar e milizie dello Stato islamico, alla fine della rivoluzione. Un affresco che racconta l’indicibilità della tragedia di Aleppo, città millenaria fondata dagli Ittiti e perla dell’Impero romano, dove hanno convissuto per secoli arabi, armeni, curdi e circassi: un luogo di pace in cui gli uomini pregavano Dio chiamandolo con nomi diversi.
E ora Aleppo è insieme Guernica e Stalingrado, Sarajevo e Grozny. Aleppo non esiste più. Anni di guerra ne hanno spazzato via i 2 milioni di abitanti, lasciando soltanto macerie. Tutti, giovani e vecchi, uomini, donne e bambini, si trascinano dietro la paura “come lo sporco attaccato alle scarpe”. Ad Aleppo sembra che a muovere la guerra sia la Natura, non più gli uomini.
Frank Westerman è nato nel 1964 a Emmen, in Olanda. Dopo gli studi scientifici diventa presto giornalista freelance nelle zone più calde del mondo. È autore di romanzi reportage in tema di razzismo, cultura, identità e potere: El Negro e io (Iperborea); Ingegneri di anime (Feltrinelli); Ararat (Iperborea, finalista al Premio Kapuściński 2010). I soldati delle parole è il suo ultimo titolo pubblicato da Iperborea. È ancora possibile arginare la violenza con le parole? Fino a che punto la penna è più forte della spada?
Di fronte a uno dei problemi più spaventosi del nostro tempo, il terrorismo, Frank Westerman si mette personalmente in gioco per capire le strategie e i margini d’azione di chi si affida agli strumenti della trattativa, del ragionamento, della persuasione: frequenta un corso per mediatori dell’Accademia di Polizia, partecipa come ostaggio alla simulazione di un sequestro aereo a Schiphol, incontra un ex dirottatore di treni, uno psichiatra che è stato tra i primi a trattare con i terroristi negli anni Settanta, e un veterano degli accordi di pace convinto che tutto sia negoziabile e che finiremo per sederci a un tavolo anche con l’Isis.
In un’inchiesta lucida e appassionante, che coniuga suspense narrativa e riflessione storica, etica e politica, Westerman ci proietta nel mezzo degli attentati di un commando molucchese a cui assistette da bambino nei Paesi Bassi, rievoca il suo incontro con una combattente della RAF all’Avana, ricostruisce l’escalation del terrore ceceno e della brutale repressione di Putin di cui fu testimone quando era corrispondente in Russia. E scavando nel complesso duello tra potere e dissenso armato, indaga le ragioni del dialogo contro il rifiuto di scendere a compromessi con i terroristi, chiedendosi se le attuali azioni jihadiste possano ammettere un’efficace risposta verbale.