Per fermare la guerra, bisogna non farla

Un amico sconvolto da quanto sta accadendo, specialmente in Medio Oriente, mi ha posto una disorientante domanda molto provocatoria: “Ma quei bambini uccisi non sono anche nostri figli?”. Mi trovo per caso a camminare vicino ad un papà con un bambino molto esplicito, che se ne esce con una domanda imprevedibile e sorprendente: “Come sarà il mondo quando diventerò grande?”. Anche i bambini avvertono l’odore di bruciato.

Ogni guerra innesca e fa esplodere la bomba del male assoluto, facendo saltare per aria il deposito dei valori umani fondamentali e non porta mai a ridefinire e promuovere la vita, ma sempre a peggiorarla, riattivando odio e vendetta, tanto da poter dire che chi fomenta, inneggia e alimenta la guerra e il terrorismo in nome di qualsiasi causa, è un nemico dell’umanità.

Nel caso in questione la scintilla è stata accesa dai terroristi di Hamas con l’eccidio in Israele di quasi 700 civili inermi, tra cui 36 bambini e 251 ostaggi. Questo atto gravissimo non può però giustificare la reazione, che ormai tutto il mondo giudica spropositata, del Governo israeliano, che ha portato finora a quasi 42.000 morti a Gaza, di cui 16.000 bambini, aprendo anche nuovi fronti, per cui noti analisti ed esperti militari ritengono molto improbabile una vittoria militare israeliana, col risultato che quel Paese oggi è purtroppo sempre più isolato.  Il diritto alla difesa di Israele rimane tale, ma non certo in questo modo.

Israele resta  comunque l’unica democrazia in quelle terre e quindi sorgono al suo interno, e anche tra gli ebrei di tutto il mondo, sempre più numerose le contrarietà a tali politiche bellicose. Si sono infatti formati gruppi di giovani israeliani, anche militari, che si rifiutano di combattere e in corrispondenza si stanno formando giovani palestinesi impegnati in una resistenza non violenta, che respinge le azioni terroristiche di Hamas.

La rete Mesarvot sostiene tali giovani israeliani in percorsi di tutela legale  per le prevedibili lunghe loro detenzioni. Le due schiere di obiettori di coscienza dei due popoli, costretti dai loro capi ad odiarsi,  si ritrovano inoltre in manifestazioni comuni contro i sempre esecrabili e mai giustificabili spargimenti di sangue.

Essi chiedono il massimo, che è però il minimo per sopravvivere, ovvero un accordo per liberare gli ostaggi in mano di Hamas, la fine della guerra e una soluzione diplomatica, convinti che per fermare la guerra, bisogna non farla. E così  danno un sostegno a quei settori dell’opinione pubblica israeliana, che pur ci sono anche tra chi appoggia il Governo, stanchi e contrari a proseguire su questa strada. Un dialogo coraggioso il loro, che apre comunque, per quanto debole sia, il sipario di un futuro meno tenebroso,  dimostrando che è l’unico modo per uscire da questo incubo.

Risuonano quindi appropriate anche oggi le stupende parole del Cardinale Carlo Maria Martini: “Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia e della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro, dell’estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace”.

 Silvano Magnelli

Print Friendly, PDF & Email
Condividi