Robo-docenti e tele didattica. Virus e digitalizzazione forzata
La connessione digitale potrà sostituire la collaborazione imprenditoriale e aziendale ma non può, e non dovrebbe, prendere il posto della partecipazione umana e didattica. Per mancanza di requisiti emotivi e biologici, di quella presenza che, dai tempi di Socrate, fonda la relazione pedagogica, il senso della scuola e la dinamica sociale che le gravita attorno. La didattica a distanza dovrebbe essere un rimedio transitorio e non la soluzione del problema.
Invece la tendenza mondiale vede non solo un consolidamento del telelavoro ma anche la digitalizzazione della comunicazione grazie all’uso dell’intelligenza artificiale. Per esempio in Cina è già stata creata una versione digitale di Zhao Wanwei, una nota anchor women, un avatar robotico che conduce notiziari, interviste e servizi in esterno. L’intelligenza artificiale applicata alla replica umanoide ha diversi vantaggi: permette riconoscimento e sintesi multimodali, riconoscimento e animazione facciale e il trasferimento dell’apprendimento.
E anche in un commissariato di Wellington, in Nuova Zelanda, c’è una robo-poliziotta, Ella, che interagisce autonomamente con le richieste d’aiuto dei cittadini. Quindi non bisognerà attendere molto anche perché sia costruito l’avatar robotico di un insegnante. Come si potrebbe definire meglio un tele-docente – di questi tempi – se non una via di mezzo tra un informatore televisivo e un sorvegliante?
E in effetti, già nel 2017- ovvero ai tempi del governo Renzi e della rivoluzione digitale della didattica – è stato presentato alla Camera dei deputati il primo robo-docente italiano: si tratta di MaraNao, che dovrebbe insegnare il coding. Ma non ha nulla a che vedere con gli ultimo prodigi perché, per funzionare, dev’essere programmato. E sono gli studenti stessi che lo fanno, coinvolti nell’apprendimento attraverso la robotica educativa e la didattica laboratoriale, ma anche dal coronanre il sogno di manovrare a piacere un insegnante.
Telelavoro e teledidattica hanno avuto un’accelerazione formidabile durante la pandemia, ed è accaduto qualcosa che non può passare inosservato: dopo la pandemia, il 95% degli impiegati del settore lavora da casa frequentando il 25% degli edifici a disposizione. L’emergenza impone cambiamenti di strutture e di programmi per adeguare gli obiettivi alla nuova situazione e fare in modo che siano perseguibili. Per ora non si parla nemmeno di ritorno sui posti di lavoro né di normale riapertura degli edifici. La situazione si potrebbe protrarre fino alla fine dell’anno. Tuttavia si procederà al reclutamento di nuovo personale e, perciò, alla fornitura di connessioni e nuovi dispositivi per favorire il lavoro da remoto. Al caso, si organizzerà un lavoro flessibile o “ibrido”, vale a dire parte in presenza e parte da casa.
Sembrerebbero le linea guida per la didattica a distanza e la situazione delle scuole secondo il Miur. Invece è la nuova politica amministrativa per gli impiegati di Facebook, di Amazon e di Twitter che, per la verità, ha già lasciato a casa la totalità dei suoi impiegati.
Oltre al fatto che Zuckerberg ritiene che il lavoro in presenza non riprenderà prima del 2021, è facile costatare che le preoccupazione della scuola italiana, e quanto dirige la soluzione dei problemi legati all’apprendimento, sono di natura politico economica e non didattica. Se la scuola italiana fosse in grado di accogliere gli studenti durante lo stato di allerta pandemica, il problema non esisterebbe.
Invece, per carenza di strutture e infrastrutture, la scuola italiana non può rispondere alle esigenze di didattica in presenza, ovvero quella tradizionale, il che spiega le incertezze e le esternazioni spesso contraddittorie e prevedibili del Ministero dell’istruzione e giustifica la politica aziendalistica cui la scuola e i suoi lavoratori sono sottoposti. In pratica, come accade da decenni anche per la sanità pubblica, per la scuola pubblica non ci sono fondi sufficienti.
Paradossalmente – è non è l’unica contraddizione osservata in questo momento – da una parte si stanziano montagne di quattrini per assicurare connessioni e dispositivi al fine di democratizzare l’accesso alla formazione (così parlano le fondazioni degli industriali e le associazioni dei dirigenti), e facial recognition and animation dall’altra gli edifici scolastici sono lasciati in uno stato di degrado e di abbandono degni di una città fantasma.
Nonostante le manifestazioni in diciannove città per la riapertura delle scuole – visto che lounge bar, fitness club e beauty center hanno riaperto i battenti – le aule rimarranno chiuse. In perfetto stile social, la ministra Azzolina ha risposto con un twitt.
Si pensa a riaprire le scuole – forse – ma soltanto quelle frequentate da alunni troppo piccoli perché rimangano a casa soli e di smistarli negli istituti superiori che rimarranno vuoti. Le task force degli specialisti stanno almanaccando date e numeri di classi studenti. Tuttavia la soluzione, paradossale anche questa, è implicita: didattica a distanza per i piccoli e lavoro da remoto per i genitori. Il problema della sorveglianza non esisterebbe.
Sembrava che sarebbe stata una transizione lenta e progressiva – anche osteggiata e criticata. E invece, l’emergenza ha accelerato l’orientamento europeo a rendere l’educazione scolastica una specie di addestramento digitale alle competenze minime in vista di lavori semplificati. Ma soprattutto ha saldato gli interessi materiali di chi vende comunicazione digitale con i bisogni della formazione scolastica a distanza. Quello che prima era un optional, ora è l’unica via praticabile. La scuola conferma la sua essenza di snodo sociale – che coniuga le famiglie con le esigenze lavorative – e di settore cruciale dell’istruzione dei futuri cittadini. Cittadini che si formeranno su una piattaforma multimediale e lontano da insegnanti in carne e ossa e con programmi alleggeriti.
All’inizio si parlava una scuola ibrida, metà a distanza e metà in presenza. Ma la ministra è stata smentita dall’impossibilità logistica di una simile prospettiva. E quindi le scuole si sono dotate di piattaforme che forniscono i loro servizi a titolo gratuito e che studenti e insegnanti sono costretti a usare. In cambio, le aziende fornitrici ottengono quantità enormi di dati – attraverso la profilazione degli utenti – che vengono acquisiti, trasformati e venduti alle società che poi li useranno a scopi di marketing o per nuove strategie di business, nella migliore delle ipotesi.
Data is the new oil, i dati sono il nuovo petrolio, dicono negli ambienti finanziari. Infatti, Zoom – l’applicazione per videoconferenze – ha superato i 300 milioni di utenti giornalieri lo scorso 21 aprile e le sue azioni in borsa sono salite del 12,5%. Questo ha permesso al suo CEO di intascare 2,5 miliardi di dollari. La stessa cosa accadrà per Microsoft Teams, la piattaforma imposta da molti dirigenti per le lezioni a distanza che, non a caso, in Italia ha registrato un aumento di utenti del 725%.
Se è vero che il mercato e il capitalismo funzionano se c’è domanda, occorre riconoscere che mai come in questo momento la domanda è fortissima. Purtroppo la scuola italiana non è abbastanza attrezzata a rispondere con i propri mezzi alla situazione di emergenza. E quindi, quello che può fare è ricorrere a prodotti gratuiti – all’inizio… – e insistere nella spinta alla aziendalizzazione mettendo in campo le stesse risposte organizzative di aziende come Amazon, Facebook, Shopify e Coinbase rinunciando a qualunque opzione pedagogica degna di questo nome. L’Associazione Nazionale Presidi è già al lavoro in questa direzione con un documento che prevede una riforma della scuola e che ha una prima, insuperabile, grave manchevolezza constituzionale: non passa dal parlamento.
Vedremo…
Roberto Calogiuri